Lacrime e polenta
In una fredda giornata di pioggia, con Alessandra, sistemavo al meglio la modesta casa, dove la tenera Irma aveva trascorso gran parte della sua vita.
Quando nel suo personale romanzo appare la parola fine, se n’è andata per sempre, in silenzio, con riservatezza, così com’era vissuta, nella mano destra la borsa di pelle nera, piena di dolore e rari sorrisi.
Ho sigillato in scatole di cartone le povere cose da lei tanto amate, come il servizio di piatti decorati, comprato a Milano, i rotoli di stracci, usciti con orgoglio dai rumorosi telai pratesi e la neve nella palla di vetro della madonna nera di Castelmonte.
Stringe nelle piccole mani uno scolorito quaderno con la fodera nera, scritto in una strana calligrafia tutta picchi e profonde cadute, come un grafico d’economia ai tempi della crisi.
Tra le pagine ingiallite, ricoperte dalla sottile polvere del tempo, brilla ancora una viola di campo, disarmata guerriera, decisa a difendere antiche storie cadute nell’oblio.
Ci sediamo sulle vecchie scale in legno d’abete e, con fatica, cominciamo a leggere.
Le parole alloggiano nascoste sotto le macchie d’inchiostro e l’odore di muffa e celano un piccolo tesoro, i ricordi splendidi e ormai dimenticati della passata giovinezza.
Sono i racconti, ascoltati mille volte, nelle lunghe notti d’inverno, prima che il carosello prendesse il posto delle litanie.
Quando la neve cadeva ancora candida e silenziosa nelle inesplorate montagne del cuore.
La frase, nell’ultima pagina, nella forma e nella sostanza, pareva una preghiera.
“A me li hanno raccontati ed io le racconto a voi perché possiate ricordare”